L’italica passione del lamento

L’italica passione del <strong>lamento</strong>

LamentarsiCi accompagneranno a lungo le immagini di un gruppo di disabili gravi sulle sedie a rotelle o sulle barelle con i respiratori in bocca e sul petto cartelli indicanti il loro sciopero della fame e dei farmaci.

Protestavano, nel novembre dello scorso anno, contro i tagli effettuati dal governo in carica sul bilancio sociale. Una ribellione silente, dignitosa che si è affiancata a quella, più drammatica, di chi ha deciso di appendere al chiodo persino la propria vita.

Lamentarsi è lo sport nazionale

Se fosse possibile, con adeguata strumentazione, rilevare da ogni edificio, da ogni piazza, da ogni vicolo del Bel Paese le voci dei suoi abitanti si leverebbe un coro ininterrotto di lamenti.
Il lamento, dal latino “claméntum” significa, nella sua accezione più estrema, “grido” ed è divenuto lo sport nazionale negli anni dell’ultima recessione economica.
Ma chi ha diritto al lamento?
Gioverebbe alle coscienze dei più sia l’elencazione delle priorità di tale diritto, sia l’esclusione da esso di intere categorie sociali!

Voce alla diseguaglianza

Va restituita voce esclusivamente ai veri figli della diseguaglianza, alle giraffe affamate dal collo corto della metafora keynesiana: ai disabili, ai pensionati di bronzo, a quel milione di disoccupati che ha rinunciato a cercare lavoro, agli unici in possesso di autentica certificazione di povertà.
Lo storico lamento contenuto nella locuzione “paga Pantalone” e la vicenda dell’iniqua “tassa sul macinato” che nella seconda metà dell’Ottocento consegnò l’Italia contadina agli usurai appaiono più attuali che mai. I secoli passano, ma i governi-rapina si autorigenerano.

I post virali di Grillo

Oggi le lamentazioni collettive sono legate ai post di Beppe Grillo, sono divenute virali, ma mentre giorni fa le proteste impazzavano sul web, la mancanza di un governo faceva registrare un punto in meno nel Pil.
Si perpetua quel pensiero auto-flagellante, tutto italiano, che ci ha reso famosi ovunque: «Come siamo bravi noi, ma tanto sfortunati e come è idiota il mondo che non ci apprezza! ».
Non siamo bravi, non abbiamo compreso che nelle società moderne non si procede per acquisizioni, non si vive solo di risorse naturali e materiali, peraltro già dissipate, ma vanno mantenute e coltivate le risorse morali, anch’esse non rinnovabili, purtroppo.
È comodo consegnarsi alla ineluttabilità delle voci del lamento, più arduo confrontarsi con il nucleo centrale della propria storia, con la verità della propria esperienza sociale.

L’elenco delle nostre malefatte

E la verità, nel suo squallore, è contenuta nell’elenco infinito delle nostre malefatte o delle nostre inadempienze. Costituiamoci: chi di noi non ha votato un impresentabile pur conoscendone le attitudini? Chi di noi non ha supplicato il proprio commercialista di rendere più lieve la dichiarazione dei redditi? Chi ha opposto resistenza alle proposte avanzate da professionisti, artigiani, commercianti di eludere l’applicazione dell’Iva? quale imprenditore, appartenente a qualunque settore economico, ha praticato solo il “bianco” nella sua attività?
Si impone un drenaggio individuale e collettivo che ponga fine a questa cultura ipocrita e vittimistica e restituisca alla fata della dignità e a quella della equità i loro poteri.
Il discorso di insediamento-bis di Giorgio Napolitano ci ha riportato alla memoria il lamentevole monito del profeta Geremia sulla distruzione di Gerusalemme. Sarà un caso, ma a quel tempo i suoi contemporanei non lo compresero! Nietta Bruno

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