Slow Food story la rivoluzione di Petrini

<strong>Slow Food story</strong> la rivoluzione di Petrini

Last updated on Maggio 10th, 2013 at 03:28 pm

Il docufilm: Slow Food story

Cambiare il mondo va bene ma la rivoluzione se in mezzo c’è Carlo Petrini si fa attraverso il piacere. Ed è vera perché quotidiana, perché fatta di microbattaglie, perché parte dal basso bassissimo della pancia e dell’istinto, perché parla di cibo buono per parlare di vita dignitosa e di sviluppo sostenibile.

news_carlo_petriniPerché «noi siamo un’associazione che vuole cambiare il mondo partendo dall’Africa che è il paradigma dell’oggi in cui stiamo rendendo infertile la terra, facendo finire l’acqua e uccidendo i contadini», come ripete Petrini. In sintesi perché “slow food è slow revolution”.

Questo ci racconta Slow Food Story (nei cinema dal 30 maggio) docufilm firmato da Stefano Sardo come un gesto di resistenza: «Per me è stato un po’ come andare in analisi perché ho dovuto concentrare in un’ora e un quarto personalità che richiederebbero delle serie lunghissime per essere raccontate in film. Sono cresciuto con gente che da sempre si occupa di Slow Food e dunque ero naturalmente portato a raccontarlo. E per me è stato aprire l’album di famiglia per raccontare una rivoluzione lenta mai interrotta da 25 anni né sulla via di uno stop».

Una rivoluzione «anche se costa fare un film del genere, è l’opposto dell’imprenditorialità, ma io appoggio l’idea – precisa il produttore Nicola Giuliano – C’è un’orgia di gastronomia in tv ma nessuno ha voluto il nostro film perché pensano che non farebbe audience. Credo che nel nostro Paese ci sia un forte problema di politica culturale, che lo sta facendo indietreggiare dopo aver fatto tanto per alfabetizzarlo. Siamo il Paese che ha il più alto tasso di analfabetismo di ritorno, una vera tragedia, 47 italiani su 100 leggono un testo e non capiscono cosa leggono ma nessuno se ne occupa».

E che cosa invece sarebbe giusto, o utile, fare oggi più che mai? «Oggi capiamo la follia di chiedere alla nostra terra sempre di più, già adesso molto suolo è diventato infertile e tra anni mancherà l’acqua perduta in agricolture intensive e abbiamo anche perso specie genetiche, per non dire di una classe contadina ridotta al lumicino. C’è bisogno di cambiare il paradigma produttivistico che distrugge la crescita e bisogna smetterla di affidare l’agricoltura a ministri e ministeri di serie B, anche perché la gestione dell’agricoltura è importante, non a caso in America se ne occupa direttamente il presidente. In Italia si dorme, ci si gingilla in ridicoli autoreferenziali pensieri legati alla gastronomia come roba di cappelli e di stelline, roba appunto da MasterChef in tv.

Nel film abbiamo tentato di spiegare che gastronomia è anche agricoltura, zootecnica, economia politica anche oggi che non c’è più bisogno di conquistare la terra perché c’è la proprietà privata delle sementi. Un giorno diventeremo tutti operai a cottimo. Oggi dobbiamo cogliere questa nuova forma di colonialismo con i giovani che muoiono per arrivare sino a noi, per lavorare nei nostri campi ed essere trattati come schiavi. Oggi tra gli chef tutti maschi dico che in ogni parte del mondo milioni di donne hanno fatto i più grandi piatti della storia dell’umanità con niente e senza che nessuno dicesse grazie. Basta con questo circo mondiale, borderline della pornografia alimentare. Un gastronomo che nasce non con i prodotti naturali ma con i prodotti industriali è uno sfigato ed esiste una sola memoria storica che si chiama fame».

La sinistra? «Non capisce la complessità di queste tematica. Prossima settimana firmo col direttore generale della Fao un accordo per sviluppare tematiche dell’agricoltura contro l’idea che produzioni intensive e monoculturali risolvono la fame. Oggi la Fao ha capito di aver sbagliato e propende per la piccola agricoltura sul territorio».

Come cambiare tutto questo? «Sarà giocoforza tornare al biologico perché la perdita di fertilità dei suoli è dettata da un uso folle della chimica che ha reso la terra come tossicodipendente, ha sempre più bisogno di prodotti e sta perdendo i suo humus. Il biologico costa? E’ vero. Ma perché i produttori di biologico devono dare la loro certificazioni e gli zozzoni no? E poi il biologico non vale se mi porti le pere dall’Argentina e me le vendi come biologiche perché portarle da lì fa più danno che se le crei qui con i prodotti chimici. Ma il biologico vero sarà il nostro futuro». Silvia Di Paola

Sito web Slow Food Story

Slow Food Story – trailer ufficiale

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