Un coraggio da Hobbit

Un coraggio da <strong>Hobbit</strong>

Mi è capitato varie volte di iniziare l’anno, in prima media, con la lettura del primo capitolo del Lo Hobbit di John R.R. Tolkien. Quando entri in classe e gli occhi di venti o trenta ragazzi di undici anni ti fissano colmi di tremore e curiosità, come di chi si accinge per la prima volta a mettere il piede fuori dall’uscio di casa. In quel momento è bello rileggere con loro quelle pagine: non solo perché raccontano l’inizio di un’avventura, ma perché descrivono nitidamente in che cosa consiste l’inizio di ogni avventura.

Hobbit

Lo Hobbit è ormai un classico in moltissime scuole medie. E l’uscita dell’ultima versione cinematografica è l’occasione per cercare di capire di nuovo perché ai ragazzi piace e perché vale la pena proporglielo. Tolkien lo pubblica nel 1937. È il racconto delle vicende che porteranno Bilbo Baggins, uno hobbit appunto, dopo mille traversie, ad affrontare un terribile drago. Tolkien dissemina la storia di punti narrativi che saranno sviluppati magistralmente nel più celebre Signore degli Anelli, anche questo riproposto di recente la domenica alla televisione. Era fatale che il regista Peter Jackson, autore della trilogia cinematografica tolkiniana, si cimentasse con questa sorta di prequel, antefatto.

L’istante cruciale della vicenda di Bilbo mi sembra racchiuso nel momento in cui il timido hobbit, come si vede nel capolavoro di Jackson, se ne sta appartato in un angolo della casa, sfinito dalla serata che ha visto la sua quieta esistenza travolta da nani maleducati, stregoni misteriosi, draghi e tesori. Sta li, quasi sperando che quegli sgraditi ospiti svaniscano nel nulla, che tutto torni come prima. E d’improvviso i nani iniziano a cantare. Un canto roco di nani, scrive Tolkien, che sembra riemergere dalle profondità della terra deve quel popolo dimora: Lontano sui monti nebbiosi e gelati / in antri fondi oscuri e desolati / prima che sorga il sol dobbiamo andare / i pallidi a cercare ori incantati … Un canto che evoca terre lontane, draghi ed elfi, fuochi e spade. Evoca le montagne, ignote al pacifico popolo della Contea. Così il celebre scrittore inglese descrive quell’istante: Mentre cantavano, lo hobbit sentì vibrare in sé l’amore per le belle cose fatte con le proprie mani, con abilità e magia, un amore fiero e geloso (…) e desiderò di andare a vedere le grandi montagne, udire i pini e le cascate, esplorare le grotte e impugnare la spada al posto del bastone da passeggio. Cosa accade? Che il cuore di Bilbo viene toccato da una nostalgia profonda, capace di trapassare le scorza di abitudini e comodità della vita di hobbit. Viene invaso dal sentore di qualcosa sconosciuto e attraente allo stesso tempo. L’inizio per Bilbo è tutto lì, nella discrezione e nell’intimità di quell’istante, in quel canto che tocca le corde più nascoste del suo animo. E gli fa presagire quanto sia grande, tremenda e affascinante la vita che lo chiama. Questo mi piace ricordare a chi inizia l’avventura della scuola, o ogni avventura umana, anche l’anno che da qualche giorno abbiamo iniziato a vivere, che è fatta si di solite cose, ma non solo: come ci ricorda lo stregone Gandalf: Il mondo non è nelle tue mappe o nei tuoi libri. È là fuori.

Il primo aspetto che emerge nell’inizio di Bilbo mi sembra proprio questa nostalgia: un sentimento che ha radici profonde quanto la nostra infanzia, quando si giocava con le spade di legno in mezzo ai boschi o si ascoltavano le storie dei nonni, seduti intorno al fuoco. La nostalgia per le montagne, dirà Bilbo sessant’anni dopo: perché essa, una volta risvegliata, interessa la vita per sempre. Certo, anche le radici rischiano di morire, se profanate da una cultura che così poco parla ai nostri ragazzi di lealtà, coraggio e onore. Eppure le radici profonde non gelano, altrimenti non si spiega il gusto che rapisce gli studenti quando li si introduce alla bellezza dell’epica. E non si spiega il silenzio di quella sera al cinema, quando un pubblico giovane che un momento prima si sbellicava dalle risate per i trailer dei più tristi cine-panettone, d’improvviso resta in silenzio di fronte alle prime scende de Lo Hobbit, quando morte e distruzione precipitano sulla città di Dane, o quanto i nani cantano il loro struggente desiderio di riavere una patria.

Il secondo aspetto che sempre colpisce i ragazzi e anche me, è che il protagonista di questa novità, di questa chiamata, è uno hobbit. Perché una creatura come Bilbo, un mezzo uomo, genera un’immediata corrispondenza, una simpatia? L’ho capito meglio l’altro giorno, quando con un gruppo di ragazzi parlavo di coraggio. Riflettevamo su come l’etimologia stessa della parola “avere cuore”, non indichi una dote prelusa a chi non possiede forza fisica o intelligenza, ma descriva una virtù che riguarda ciò che nella vita si ama, perché accessibile a tutti: è l’amore ad essere intrepido, direbbe Manzoni, e chiunque puù amare. D’improvviso un ragazzo, di molti che in questo mese stanno divorando Lo Hobbit, esclama: «Ma è quello ce sta scoprendo Bilbo»! È vero, mi sono detto, e proprio qui sta la genialità di Tolkien: rendere protagonisti della sua epica non gli stregoni o i re, ma gli hobbit, mezzi uomini. Quanto ci si può sentire mezzi uomini a undici anni (ma anche a diciotto, a trenta o a cinquanta)? Quanto ci si può sentire piccoli e fragili di fronte alla vita? Ma è soprendente scoprire che si può essere mezzi uomini ed essere scelti, convocati alla più straordinaria delle avventure, tanto da diventare i protagonisti della storia. Al punto da poter essere proprio lui, un mezzuomo, conforto e sostegno per chi è più grande: Ho scoperto che sono le piccole cose buone delle persone comuni che tengono a bada l’oscurità … Perché Bilbo Baggins? Perché mi infonde coraggio, confesserà Gandalf.

Nostalgia, quindi, e il coraggio dato dall’essere scelti. Certo, a Bilbo non è evitato il momento della decisione, la responsabilità di dire: io ci sono. Come nella splendida scena reinventata da Jackson in cui Bilbo si sveglia il mattino dopo l’arrivo dei nani: è solo, la casa è in ordine, tutto è come prima. Sembra quasi che sia stato un sogno, e invece tocca a lui decidere. Ma più di ogni altra cosa vince su Bilbo quella nostalgia profonda che la serra prima aveva avvinto il suo cuore. E si parte, dimenticando perfino i fazzoletti.

Si intraprende un cammino in cui non verrà risparmiato nulla: si potrà gustare la bellezza infinita del mondo, dalle armature scintillanti degli elfi alle cascate di Gran Burrone (e dobbiamo ringraziare il regista neozelandese per l’amore ai paesaggi, ai tramonti e alle albe della Terra di Mezzo). E si dovrà guardare in faccia il male, un male che si può chiamare tale, senza le ambiguità e le storture del mondo d’oggi. Ed ogni passo, ogni gioia ed ogni ferita renderanno Bilbo sempre più se stesso, sempre più certo che la lotta sta nel riprendere il cammino ogni istante, e nello scoprirsi capace di pietà, come accade negli antri oscuri di Moria.

Per questo ritengo che l’epica contemporanea di Tolkien sia davvero preziosa per noi e per i nostri ragazzi. Bisogna continuare a proporre quella storia, per ricordarci che la vita è davvero un viaggio inaspettato e un’avventura piena di fascino.

La strada è semplice, nella Terra di Mezzo, come ogni mattino: che ognuno di noi possa ripetere per sé le parole che Balin confida ai compagni raccontando la battaglia tra goblin e nani in cui ha visto il giovane Thorin affrontare il terribile condottiero nemico:  Allora ho pensato, ecco uno che potrei seguire. Ecco uno che potrei chiamare re.

 

D.G.

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