A cura di Danilo Serra
A discapito della tradizionale codificazione filosofica e storiografica è possibile attuare una sorta di collegamento ideale tra due esistenze mentali estremamente distinte e distanti per tempo e cultura. Da un lato Aristotele, immortale autore di un’opera colossale ai posteri tramandata con la non originale nomenclatura “Metafisica”[1]; dall’altro Martin Heidegger, distruttore ed ‘acerrimo nemico’ di un pensiero metafisico e raziocinante.
La connessione artificiale è data dal modo, pressappoco similare, di intendere sofia e pensiero: la loro totale inutilità ed improduttività, infatti, sancisce la loro parziale unione virtuale.
La sapienza, l’aristotelica sofia (σοφία), viene definendosi nel corso dell’Etica Nicomachea come “ciò che non può essere diversamente da ciò che è”[2]; è netta ed evidente qui la differenza tra una sofia concepita nella forma di scienza, episteme (ἐπιστήμη), ciò che è saldo e indissolubile (Wissen-Schaft) e una techne (τέχνη), arte ‘mutevole’ non avente per oggetto le cose che sono o vengono all’essere per necessità o per natura, intesa per l’appunto come “ciò che può essere diversamente da ciò che è”. Questa è la distinzione che, nel libro II della Metafisica, intercorre tra una scienza teoretica, la filosofia, avente come finalità la verità ed una ‘scienza’ pratica, l’arte, avente come finalità la produzione.
La distinzione tra sapienza (sofia) e arte (techne) ci conduce inevitabilmente presso una dimensione mentale ben de-finita dove ritroviamo da una parte una conoscenza fine a se stessa e dall’altra una conoscenza giovevole ed utilitarista[3].
In tal senso, la sofia, la “scienza di certe cause e di certi principi”, non produce nulla in quanto non tende a realizzare qualcosa. La sofia non ha a che fare con una funzionale dimensione poietica e produttiva. E’ inutile in quanto ‘serve a se stessa’; essa si pone come conoscenza dis-interessata, in-condizionata, ovvero libera da ogni condizionamento esterno. Colui che si ‘interessa’ di certe cause e di certi principi lo fa per amore della conoscenza stessa.
La ‘civitas’ della sofia, a differenza della sfera prettamente sensibile ed esperienziale della techne (τέχνη), non è, e non può essere, abitata da un fine accidentale, da un produrre (poiesis [ποίησις] ), da una intenzione strumentale.
Così, prendendo in forte considerazione questo singolo aspetto, non è pura u-topia intrecciare armoniosamente l’Aristotele dell’inutile sofia con l’Heidegger dell’inutile pensiero, tralasciando in questo contesto l’implacabile giudizio negativo che il tedesco nutriva nei confronti della sofia aristotelica, di quella che egli etichettava come “mortificazione del pensiero” (la filosofia/metafisica/scienza/tecnica annichilisce e disossa il pensiero autentico).
Nella prospettiva designata dall’artefice del fortunato “Sein und Zeit” (1927), il compito del pensiero non appare assolutamente essere quello di produrre qualcosa. Heidegger può affermare senza equivoci: <<la scienza non pensa>>, proprio perché il pensare non serve a produrre e non serve neppure a risolvere i grandi enigmi del mondo. In un’opera datata 1946, Lettera sull’umanismo, l’intellettuale tedesco sottolinea il compito di un pensiero che deve <<portare a compimento il riferimento dell’essere all’essenza dell’esserci>>. Questa tensione e torsione (orexis) del ‘portare a compimento’ implica un far av-venire, non un produrre, non un generare ma un portare alla luce ed al linguaggio ciò che già è, ciò che è da pensare.
Che cosa significa pensare? Che cosa si chiama pensare? – Che cosa ci chiama (ci mette in moto) a pensare? Was heißt [UNS] denken??
Pensare = rammemorare, portare al cuore (ri-[cor]dare), recuperare un’origine perduta e dimenticata. Pensare è An-denken, pensiero rammemorante.
La speculazione heideggeriana intende anzitutto delineare un fitto collegamento tra pensare ed essere, rievocando mentalmente, tra gli altri, il pre-socratico (e dunque pre-metafisico) Parmenide. Pensare significa ‘pensare a’, ‘pensare l’Essere’, ovvero pensare a qualcosa (l’Essere non più inteso metafisicamente come fissità, stabilità, assolutezza ferma) che non si concede e non si da mai definitivamente (l’Essere si da e non si da, si vela e si svela all’interno di una dimensione storica in cui “l’Essere lascia essere”). Pensiero è energia-forza (diunamis-vis) sempre viva, attiva, mobile; l’Essere nel suo essere non-nascoto (A-leteia; non buoio; apertura; dis-velamento, privazione del nascondimento) salvaguarda questa dimensione dinamica (e non consumistica) del pensiero.
Pensare significa muoversi ed incamminarsi nell’orizzonte illuminato ed illuminante della “radura dell’Essere” (Lichtung). L’uomo (Dasein) e-siste, è un essere e-statico; la sua esistenza si definisce nello stare nella radura, nell’apertura dell’Essere[4] (l’uomo è il pastore/custode del senso proprio dell’Essere). Pensare, insomma, non è produrre strumenti; non è produrre prodotti/etichette. Il “buon pensiero” è un pensiero poetizzante, ringraziante (Denken ist Danken) e non matematizzante. In questi termini è possibile carpire la distanza abissale che il pensatore di Meßkirch (Meßkirch, 26 settembre 1889 – Friburgo, 26 maggio 1976) istituisce tra l’autenticità effettiva del pensiero (pensiero non produttivo, non poietico ma inutile) e quel pensiero tecnicizzante atto a determinare e rap-presentare (Vor-stellung, posizione/relazione dell’oggetto [rappresentato] dinanzi al Soggetto [rappresentante] ).
In quest’ottica è inoltre riconducibile la critica heideggeriana alla metafisica (Was ist Metaphysik?), pensiero devastante e brutale, pensiero che ha provocato l’oblio inesorabile dell’Essere; un pensiero che ha ridotto l’essere ad ente, etichettando, determinando, producendo ed imponendo il proprio sigillo ‘scientifico’ fondante e fondamentale.
La metafisica, pensiero antropomorfizzante e soggettivo[5], ha pro-gettato l’uomo padrone dell’ente elevandolo (da Platone in poi) a fundamentum absolutum, fondamento ontologico di tutte le cose. Nell’epoca dell’affermazione ‘tecnica’ del nichilismo, epoca nella quale non si è più in grado di pensare autenticamente il rapporto di affinità Essere-Nihil (L’Essere non è; l’Essere è Ni-Ente, negazione dell’ente, non-oggetto[6]), Martin Heidegger innalza con decisione un pensiero non più calcolante, non più rap-presentante, un pensiero non più concepito come asserzione, giudizio.
Il pensiero, il pensiero autentico, non bussa alla porta del sapere (non è il caso della filosofia in Aristotele) e non conduce ad un produrre determinante; non è scientifico, non è pensiero oggettivante. E’, ed appare, come un pensiero che, analogamente alla sofia aristotelica (sapienza/filosofia = finalità non produttiva), si impone ed impone trionfalmente il suo essere totalmente [e liberamente] inutile.
L’inutilità produttiva del pensare è ben descritta anche dallo storico intellettuale del Criticismo Immanuel Kant che, specie in un breve saggio del 1786, “Che cosa significa orientarsi nel pensiero”, coglie in pieno l’inesauribile azione di un principio di orientamento distinto nettamente dall’attività profondamente fenomenica del conoscere. Questo principio non è nient’altro che la ragione, definita non a caso bussola avente il non banale obiettivo di indicarci come procedere in un territorio che a noi appare essere similare ad una stanza buia. Kant, il pensatore della distruzione della metafisica in quanto scienza, non ha potuto negare l’intrinseca esigenza della metafisica stessa. Essa, disposizione naturale, difende e protegge l’indistruttibile bisogno della ragione, un bisogno non produttore di conoscenze. La ragione diviene così l’occhio vigilante. La sua capacità è quella di vedere da una parte e dall’altra, mettendo in relazione ciò che sta di qua e ciò che sta di là, non cadendo in contraddizione perché entrambi sono ambiti che le appartengono e le competono di diritto. La ragione sta sul limite (Grenze). E il limite, kantianamente inteso, è quella frontiera affacciantesi da una parte e dall’altra, non avendo in questo senso un significato restrittivo. Il limite non è limitazione di potenza, ma esaltazione generatrice in quanto “ciò che sta tra” (il sensibile e l’intelligibile). In altre parole, la ragione deve farci comprendere fin dove possiamo spingerci sul campo dell’esperienza possibile e come navigare nel tempestoso e barcollante oceano della metafisica. Così, il bisogno della ragione (<<il sentimento del bisogno proprio della ragione>>) è molto di più del semplice desiderio/appetito (begirde) di sapere. Il bisogno non vuole consumare l’oggetto facendolo proprio. La ragione non vuole conoscere, non vuole produrre. Essa è proprio questo naturale bisogno di porsi aldilà del condizionato. Come può un uomo saggio non porsi questioni sull’esistenza di Dio o sull’immortalità dell’Anima? [Uno dei tanti quesiti posti dal Kant dei “Prolegomeni ad ogni futura metafisica che potrà presentarsi come scienza” (1783) ]. Il bisogno della ragione è innegabile ed inesauribile. La ragione non può fare a meno di pensare metafisicamente.
<<Il ruolo della filosofia non sarà proprio quello di condurci a una percezione più completa della realtà, attraverso un certo spostamento dell’attenzione? Si tratterà di distogliere l’attenzione dall’aspetto praticamente interessante dell’universo e di rivolgerla verso ciò che, praticamente, non serve a niente. Tale conversione dell’attenzione è la filosofia stessa.>> (H.Bergson, Pensiero e movimento, pag 129, a cura di F.Sforza, Bompiani.)
Nella misura in cui il pensiero è pensiero dell’Essere (pensare a), ovvero un pensare a qualcosa di non fisso che non si concede mai definitivamente, il pensiero stesso non può che essere sottoposto ad una serie indefinita di rischi. Il pensiero è un rischio; pensare è un rischio.
[1] La <<Metafisica>> non è un’opera nel senso usuale del termine in quanto non ha un’unità letteraria né un’unitaria genesi cronologica. (Giovanni Reale)
L’espressione <<metafisica>> non appartiene al gergo puramente aristotelico. Nonostante la problematica sia tutt’altro che de-finita, numerosi pensatori sono concordi nell’affermare che il termine metafisica sia stato coniato da Andronico di Rodi, un Peripatetico del secolo I a.C., che per primo pubblicò un’edizione completa delle opere del Filosofo, sistemando in maniera organica tutto il materiale che era stato reperito.
[2] <<Tutti ammettiamo che ciò di cui abbiamo scienza non può essere diversamente da quello che è: ciò che invece può essere anche diverso, quando è fuori dal campo della nostra osservazione, non si sa più se esiste o no.>> (Etica Nicomachea, Libro VI 1139b 20)
[3] << Arte sarà lo stesso che “disposizione ragionata secondo verità alla produzione”. Ogni arte, poi, riguarda il far venire all’essere e il progettare.>> (Etica Nicomachea, Libro VI 1140a 10)
[4] <<L’ente che è nella modalità dell’esistenza è l’uomo. La roccia è, ma non esiste. L’albero è, ma non esiste. Il cavallo è, ma non esiste. L’angelo è, ma non esiste. Dio è, ma non esiste. La proposizione l’uomo esiste significa che l’uomo è quell’ente il cui essere è contraddistinto nell’essere, partendo dall’essere, dallo stare-dentro stando aperto nella svelatezza dell’essere.>> (M. Heidegger, Introduzione a <<Che cos’è Metafisica?>>, pag 104, a cura di F. Volpi, Adelphi)
[5] <<Così, sembra quasi un luogo comune se per esempio rammentiamo che la metafisica dell’età moderna si distingue per il particolare ruolo che svolgono in essa il soggetto umano e il richiamo alla soggettività dell’uomo.>> (M. Heidegger, Il nichilismo europeo, pag 152, a cura di F. Volpi, Adelphi)
[6] <<Niente significa: il non essere lì presente davanti, il non essere di una cosa, di un ente. Il <<niente>>, nihil, vuol dire quindi l’ente nel suo essere ed è pertanto un concetto ontologico (Seinsbegriff), non un concetto assiologico (Wertbegriff).>> (M. Heidegger, Il nichilismo europeo, pag 51, a cura di F. Volpi, Adelphi)