Aristotele. Il ruolo della filo-sofia

<strong>Aristotele</strong>. Il ruolo della filo-sofia

Serra_Danilo A cura di Danilo Serra.

 

Una delle molteplici questioni emergenti nel I libro della Metafisica può essere formulata attraverso il seguente, provocatorio, interrogativo: Che cosa è la sapienza (σοφία)?

Nell’Etica Nicomachea Aristotele definisce la sapienza, la sofia, attribuendole il carattere della “fissità”, della “stabilità”. La sofia è, nello specifico, “ciò che non può essere diversamente da ciò che è”.

Tutti ammettiamo che ciò di cui abbiamo scienza non può essere diversamente da quello che è: ciò che invece può essere anche diverso, quando è fuori dal campo della nostra osservazione, non si sa più se esiste o no[1].

 

In questo passo lo Stagirita attua una stretta connessione tra lo scientifico e il non-mutevole. La scienza è propriamente ‘scienza’ solo se si occupa di ciò che non muta. In tal senso, la scienza, l’episteme (ἐπιστήμη), è contrapposta a quella disciplina ‘mutevole’ non avente per oggetto le cose che sono o vengono all’essere per necessità o per natura, disciplina definita (all’opposto della sofia) come “ciò che può essere diversamente da ciò che è”.

Nel cammino percorso da Aristotele nel I libro della Metafisica, la sapienza viene descritta, con più precisione, come la scienza che riguarda certi principi e certe cause.  Ma di quali principi e di quali cause sta parlando il Filosofo? Posto che la sapienza sia scienza, di cosa essa dovrà occuparsi specificamente? L’obiettivo è proprio quello di «esaminare di quali cause e di quali principi sia scienza la sapienza»[2]. Per realizzare un siffatto intento, Aristotele giunge a considerare e mettere in luce le diverse concezioni che si hanno, comunemente, del sapiente. Così, il sapiente:

  • conosce tutte le cose, per quanto ciò è possibile. «Non evidentemente che egli abbia scienza di ciascuna cosa singolarmente considerata»[3]. Il sapiente è, da questo punto di vista, colui che possiede la scienza dell’universale.
  • È in grado di conoscere le cose difficili e non comuni a tutti. «Infatti, la conoscenza sensibile è comune a tutti e, pertanto, è facile e non è affatto sapienza»[4]. Le cose difficili sono, per l’appunto, le cose universali.
  • Conosce le cause.
  • È in grado di comunicarle ed insegnarle agli altri.
  • La sua ricerca è alimentata dal puro fine di sapere. Egli non si occupa di qualcosa in vista di un mero beneficio materiale, non ricerca da quel “qualcosa” alcun vantaggio che sia estraneo ad esso. «Infatti, colui che desidera la scienza per sé medesima, desidera soprattutto quella che è scienza in massimo grado, e tale è, appunto, la scienza di ciò che è in massimo grado conoscibile»[5]. La scienza del sapiente è dunque “inutile” in quanto non tende a realizzare qualcosa.
  • Ha a che fare con una scienza che è “gerarchicamente sopraordinata” rispetto a quella che è subordinata. «Infatti, il sapiente non deve essere comandato ma deve comandare, né egli deve ubbidire agli altri, ma a lui deve ubbidire chi è meno sapiente»[6].

Attraverso questo “elenco” di concezioni che riguardano essenzialmente l’attività del sapiente, Aristotele architetta lo statuto della sofia, dandone una definizione determinata. Essa è la ricerca delle cause e dei principi primi:

 

Da tutto ciò che ci è detto, dunque, risulta che il nome che è oggetto della nostra indagine si riferisce ad una unica e medesima scienza: essa deve speculare intorno ai principi primi e alle cause[7].

 

Conoscere le cause è fondamentale perché la conoscenza della cosa passa attraverso la conoscenza della causa: «infatti, diciamo di conoscere una cosa, quando riteniamo di conoscerne la causa prima»[8]. Le cause prime, sottolinea Aristotele, sono quattro. Esse vengono intese in quattro significati diversi:

1) materiale= causa è la materia e il sostrato

2) formale= causa è la sostanza e l’essenza

3) efficiente= causa è il principio di movimento

4) finale= causa è lo scopo e il bene (il fine di ogni generazione e di ogni movimento).

 

In sintesi. La sapienza aristotelica, in quanto “inutile” e fine a se stessa, possiede il tratto della libertà. La sapienza è conoscenza disinteressata, incondizionata, sganciata da ogni condizionamento esterno. Essa, tra tutte le scienze esistenti, è l’unica veramente libera, poiché non è finalizzata alla produzione tecnica di qualcosa. Così, i sapienti, liberi amanti della libera sapienza, sono coloro che ricercano le cause e i principi primi solamente per amore della conoscenza. Loro conoscono cose difficili, meravigliose, divine, sovraumane e inutili, “praticamente” inutili. Essi non sono altro che i veri filosofi.

Per Aristotele, i primi sapienti sono degni di essere chiamati “filosofi” poiché hanno recitato un ruolo fondamentale nel teatro della conoscenza, ponendosi in marcia verso la Verità, esponendosi. Loro sono filosofi in quanto hanno cercato di risolvere l’interrogazione circa le cause e i principi. Il loro tentativo di risoluzione non è altro che il bisogno di pensare la propria esistenza, cercando di scorgere le vere cause e i veri principi. Loro sono “coloro che primi filosofarono” in quanto si sono lasciati sedurre e meravigliare dalle difficoltà più semplici, progredendo pian piano e giungendo a porsi problemi sempre più complessi. La meraviglia è l’elemento decisivo della loro vita. Attraverso la meraviglia, loro sono divenuti filosofi. La meraviglia li ha bloccati, li ha costretti a riconoscere una profonda lacuna. Loro non sapevano, loro non conoscevano. Adesso, invece, riconoscono la loro ignoranza: sanno di non sapere. La meraviglia li ha costretti a riflettere e pensare. Questo blocco non li ha pietrificati. A partire da esso, “coloro che primi filosofarono” si sono scossi e si sono attivati nel tentativo di risolvere in qualche modo l’enigma, cercando di colmare l’evidente lacuna.

L’esigenza dei primi filosofi è, in fondo, questa: mirare l’unità oltre la differenza, l’uno aldilà del molteplice, il principio che resta in un cosmo in cui tutto scorre. Ma loro non si sono resi autenticamente filosofi, non hanno abbracciato con ardore il “corpo” della sofia. Il loro marciare è in realtà un “andare a tentoni”, una tensione incessante, un movimento decisivo che comunque non li ha resi pienamente filosofi. Si sono avvicinati alla Verità, hanno lottato e sofferto per essa, ma non sono riusciti a com-prenderla. Hanno parlato delle cause in maniera confusa, balbettando e comportandosi come bambini che sempre si contraddicono. I primi filosofi, in definitiva, non hanno colto e compreso quelle cause e quei principi primi, ciò di cui si nutre, fondamentalmente, la filo-sofia, la scienza di “certe cause [prime] e di certi principi [primi]”.

 

 

[1] Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 1139b 20.

[2] Aristotele, Metafisica, I, 982a.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.

[6] Ibidem.

[7] Aristotele, Metafisica, I, 982b.

[8] Ivi, 983a 25.

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