A cura di Danilo Serra
È nota l’asserzione heideggeriana: «La scienza non pensa»1. L’affermazione “la scienza non pensa” suscita in prima battuta clamore, appare scandalosa, inconcepibile. Quando la pronuncia, Hiedegger tuttavia non sta compiendo affatto una critica serrata ed assoluta nei confronti della scienza. Il senso di questa sua espressione non vuole essere denigratorio. Il filosofo tedesco intende invece indicare qual è l’ambito dentro il quale si muove e naviga la scienza, ricercando quei confini che la scienza stessa si impone. Dietro un’apparente asserzione repulsiva, si nasconde in Heidegger piuttosto l’intento essenziale di richiamare in ballo la scienza (e la tecnica) in un evo condizionato dal movimento pervasivo tecnico-scientifico. Heidegger, in realtà, a mio avviso, nel provocare la scienza con questa sua affermazione, ripone in auge la scienza e la tecnica, invitando a ripensare e riflettere più profondamente su ciò che esse sono e rappresentano per l’uomo contemporaneo. Tale sentenza non esprime affatto l’inaccessibilità al pensiero per le scienze, anzi «proprio perché la scienza non pensa, il pensiero deve nella situazione attuale prestare insistentemente attenzione alle scienze – ciò che esse non sanno fare per loro conto»2. Per quale ragione, allora, la scienza risulterebbe non pensare?
La scienza si rivolge verso la comprensione dell’oggetto. La scienza ferma (stellt) il reale (das Wirkliche), nonché la “cosa presente che si pro-spetta” (das sich herausstellende Anwesende). La scienza interpella il reale in modo che questo si ponga di volta in volta come effettuato (Gewirk), ovvero quel che è constatabile, perseguibile, calcolabile. La scienza afferra così il dato, lo com-prende, lo coglie. Essa indaga intorno ad un “qualcosa”. Questo “qualcosa” è posto come il suo oggetto. La scienza non pensa allora nel senso che essa indaga intorno a un qualcosa senza metterlo in questione come tale, senza, cioè, “problematizzarlo”. La fisica, per esempio, lavora concentrando le proprie forze ed energie sulla natura. Essa si dirige verso l’analisi e lo studio dell’insieme dei fenomenici fisici/naturali. Questi fenomeni costituiscono dunque il suo oggetto specifico. La fisica, quindi, “accerta” e “fissa” la natura in un determinato campo di oggetti. Qui il paradosso: la fisica si muove verso la natura, indaga la natura, ma non pensa che cosa è la natura come tale. La teoria fisica non va mai al di là della natura già presente perché non interroga propriamente sulla natura come tale in quanto apertura dell’essere. La natura rimane così, per la scienza fisica, l’ “inaggirabile” (das Unungängliche), poiché questa affronta sempre il singolo fenomeno (va incontro al fenomeno particolare) e l’essere che si manifesta come natura. Oltre dunque ad obliare l’essere che si svela come physis, la scienza fisica non interroga mai la propria essenza, non pone il problema circa il proprio essere, ricalcando quella dimenticanza della propria essenza che caratterizza del resto anche la metafisica.
Attraverso la proclamazione della scandalosa proposizione “la scienza non pensa”, Heidegger pone pertanto l’accento sull’esigenza di compiere, ora più che mai, un cammino. L’affermazione, d’altronde, dà scandalo in quanto provoca, eccita, fomenta, indirizza sulla via “di ciò che è degno di essere domandato” (das Fragwürdige che è letteralmente “il problematico”). Camminare in questa direzione significa per l’esistenza umana ricercare la confidenza con le radici della propria origine.
Per Heidegger, allora, l’incarico (il compito) del pensiero è quello di elevarsi oltre il singolo settore scientifico particolare, superando il metodo di un procedimento di tipo calcolante. Il pensiero deve essere in grado di tormentarsi, urtando e scandagliando l’abisso dell’ “inaggirabile”, interrogandosi intorno a ciò che, nelle discipline particolari, viene presupposto come ovvio e scontato, ma che così “ovvio” e “scontato” non è. L’incarico del pensiero consiste, fondamentalmente, nel “prendersi carico” di ciò che è “inaggirabile”, “inattuale”, “inosservato” (in quanto dato per scontato), non affrontato e dunque sotterrato. Il pensiero scava a fondo, forma una cavità nel terreno, per lasciare riemergere dietro la patina dell’ovvietà quel che è dimenticato. Il pensiero è, se mi si concede la metafora, come un abile archeologo che riporta alla luce una città sepolta, l’originaria e sempre pulsante civiltà dell’ “inaggirabile”.
1 M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, trad. it. di U. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco, Milano 1988, p. 41.
2 Ivi, p. 256.