Siti archeologici. Solo in Sicilia risultano un costo e non fonte di fonte di benessere e di crescita

<strong>Siti archeologici</strong>. Solo in Sicilia risultano un costo e non fonte di fonte di benessere e di crescita

Last updated on Ottobre 9th, 2012 at 08:57 pm

Siti archeologici

Finora costano alla pubblica amministrazione più di quanto rendano. Perché è finora mancata una gestione manageriale dell’immenso patrimonio culturale cui dispone la Sicilia. Eppure, stimano gli economisti specializzati nel settore che ogni euro investito nei beni culturali ne produce 7: il 700%. Un guadagno stratosferico che rischia di rimanere solo teorico, fino a quando non si cambierà mentalità e non si capisce che, oltre la conservazione, è necessario utilizzare musei, siti archeologici e palazzi monumentali per attività economiche.

Insomma, occorrerebbe una vera e propria “rivoluzione culturale” che faccia piazza pulita di una serie di regole che più che proteggere, spesso sono vere e proprie zavorre. Per dirla senza tanti giri di parole, i dirigenti dovrebbero trasformarsi in veri e propri manager.

A studiare e sperimentare forme di gestione manageriale di siti culturali, Roberto Ferrari, originario di Taormina, laurea alla Bocconi, dottorato alla Luiss e consulente del ministero per i Beni culturali. Un esperto, dunque, che conosce molto bene la realtà siciliana.

Gli enormi giacimenti culturali della Sicilia dovrebbero essere fonte di benessere e di crescita, invece, non solo non si riesce a guadagnarci, ma a volte sono la peggiore immagine della Sicilia.

«Esistono in Italia esempi di gestione di beni culturali che funzionano. Tutto dipende dal modo in cui vengono erogati i servizi. Se i privati sono interessati a gestire i book shop, vuol dire che un vantaggio c’è».
In Sicilia, nonostante le migliaia di precari, per motivi che il cittadino stenta a comprendere, musei e siti archeologici restano chiusi nei giorni di festa, creando malumori sia nei visitatore locali che nei turisti che arrivano dall’estero.
«La prima cosa da fare è quella di introdurre il concetto della misurazione della qualità, nonostante ciò che dicono storici dell’arte e architetti».

Ma i privati, considerato che l’orientamento prevalente è quello della conservazione del bene, più che la fruizione, perché dovrebbe investire in un settore ingessato, come quello dei beni culturali?
«L’assessorato regionale ai Beni culturali si è impegnato a suscitare l’interesse di imprese culturali, ma bisogna cambiare mentalità, pubblicando bandi per 70 milioni di euro».

– Può essere più esplicito?
«Chi avrebbe dovuto occuparsi della gestione e la programmazione dei siti culturali, in realtà, ha un profilo culturale orientato verso la conservazione e il vincolo. Invece, bisogna chiedersi cosa si può fare negli spazi vincolati? Cosa si può fare in una sala affrescata di un palazzo storico? Da noi, tutto dipende dal Soprintendente che può decidere se concedere quello spazio o no. Per esempio, a Londra, se si rompe la maniglia di una porta di un palazzo storico, è già scritto con quale criterio bisogna sostituirla; in Sicilia, possono passare anche mesi prima di decidere. Insomma, la mentalità prevalente è molto distante dall’esigenza di programmare e gestire. Purtroppo, sono stati effettuati corsi di formazione nell’ambito dei beni culturali, nati con i vizi dei docenti».

– Se e è vero, che un investimento nei beni culturali rendere il 700%, allora, perché nessuno si fa avanti?
«Un investimento rende se fatto bene. La Regione siciliana ha investito enormi risorse nei beni culturali, ma qual è stato il ritorno? La Sicilia ha grandi potenzialità, ma la Regione deve rimuovere gli ostacoli. I privati del Veneto, impegnati nel recupero di alcuni palazzi storici, non verrebbero mai in Sicilia. In Lombardia stiamo sperimentando un circuito di Ville gentilizie, programmando attività culturali. Ai Soprintendenti siciliani, invece, interessa solo il restauro poco importa se i contenitori rimangono vuoti».

– Secondo lei, come si può invertire la marcia?
«Bisogna introdurre il criterio di responsabilità dei dipendenti pubblici sulla gestione dei beni culturali e, magari, dare maggiore autonomia ai direttori dei musei e dei parchi archeologici».

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