Cosa Nostra si adoperò per aiutare Forza Italia

<strong>Cosa Nostra</strong> si adoperò per aiutare Forza Italia

Al processo per la trattativa Stato-mafia le rivelazioni di Antonino Giuffrè, boss di Caccamo ed ex braccio destro di “Binnu u tratturi”.

Un benemerito della Patria Bernardo Provenzano, il padrino di Corleone.

Perché l’ala stragista di Cosa nostra fu eliminata grazie alla «sbirritudine» di “Binu u tratturi” e di sua moglie Benedetta Palazzolo, “postina” delle soffiate del coniuge latitante destinate a polizia e carabinieri, «come se ci fosse qualcuno che con il dito indicava dove si nascondevano i latitanti».

Trattativa Stato-mafia

Così parla Antonino Giuffré, boss di Caccamo ed ex braccio destro di Provenzano, arrestato il 16 aprile 2002.

Ieri ha deposto, in videoconferenza, al processo sulla trattativa Stato-mafia che si sta svolgendo davanti alla 2ª sezione della Corte di Assise di Palermo.

All’udienza c’è il procuratore Francesco Messineo, ma manca il pm Nino Di Matteo, destinatario di minacce da parte di Totò Riina, uno dei dieci imputati, insieme ad ex ufficiali dell’Arma e di ex politici, del processo. Ufficialmente il magistrato sta lavorando all’appello del processo Mori. Messineo è in aula per esprimergli la solidarietà di tutta la Procura di Palermo, così come fanno don Luigi Ciotti, presidente dell’associazione Libera, e gli avvocati delle parti civili e della difesa degli imputati.

Ad inizio di udienza il presidente Alfredo Montalto annuncia di avere depositato in cancelleria la lettera del capo dello Stato Giorgio Napolitano, tuttora “top secret”, a disposizione di accusa e difesa per decidere se la sua deposizione – richiesta dalla Procura – sia necessaria.

Riina fu catturato il 15 gennaio 1993 a Palermo. “U curtu” fu «venduto» sostiene Giuffré e «il covo, si diceva tra noi di Cosa nostra, non fu perquisito per non trovare tracce né documenti. Ridevamo quando sentivamo che il “venditore” era Balduccio Di Maggio».

Poi seguirono, in tutta la Sicilia, gli arresti dei boss dell’ala militare che avevano deciso – in una riunione della Commissione di Cosa nostra nel dicembre del 1991 – le stragi del 1992 e del 1993. Bisognava, spiega Giuffré, «punire i politici che avevano tradito: Salvo Lima, Lillo Mannino, Carlo Vizzini, Salvo Andò, Claudio Martelli» e «uccidere i magistrati acerrimi nemici di Cosa nostra: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino» nonché «attaccare lo Stato per costringerlo a scendere a patti dopo la sentenza definitiva del maxiprocesso».

E così nella rete finirono Benedetto Santapaola, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca. «Nel 1993 – continua Giuffré, rispondendo, per otto ore, alle domande dei pm Francesco Del Bene, Vittorio Teresi e Roberto Tartaglia – l’ala militare è la più forte dentro Cosa nostra. Bagarella e gli altri, dopo l’arresto di Riina, portano avanti la strategia di attacco allo Stato.

Le stragi del ‘93 sono viste molto male da Provenzano: la violenza è arrivata in Continente. E anche il sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo e l’omicidio di don Pino Puglisi ci trovano impotenti perchè noi, quelli vicino a Provenzano, non ne sappiamo nulla. Temevamo per la nostra incolumità e avevamo paura. Allora Provenzano si attivò con le forze dell’ordine per fare arrestare Bagarella e tutti gli altri».

In realtà, sostiene Giuffré, «Provenzano nel ‘93 aveva cambiato strategia. Quando esco dal carcere lo trovo completamente cambiato. Un personaggio vergine, come se le colpe erano tutte della Commissione e di Riina. Mi dice che bisogna mettere da parte l’attacco allo Stato. Perché, mi spiega, contro lo Stato, che è più forte, si perde sempre. Mi dice che non bisogna fare più “scruscio”, che bisogna ripristinare i contatti politici, scegliere la logica del “calati juncu ca passa la chjna” e della sommersione per uscire dalla crisi. “Nel giro di 6-7 anni, assicura, ne saremo fuori”. Mi trovò d’accordo. Non si poteva continuare con le bombe, con l’aggressione allo Stato, con le guerre dentro Cosa nostra». Riina e i boss più sanguinari furono venduti per avere in cambio benefici, soprattutto per i detenuti.

Quanto alla «missione» del defunto ex sindaco di Palermo, che dopo le stragi del ‘92 avrebbe avviato, per l’accusa, una trattativa con i carabinieri del Ros, «ufficialmente – sostiene Giuffré – Vito Ciancimino doveva cercare di fare gli interessi di Cosa nostra. In realtà pezzi dello Stato hanno comprato l’eliminazione della frangia più pericolosa di Cosa nostra.

Il regista che aveva portato avanti questa strategia fu Provenzano, che ebbe i maggiori vantaggi e mi parlò della trattativa tra Stato e mafia.

Nel ’92 Ciancimino era andato in missione con lo “sta bene” di Riina e Provenzano dai carabinieri. Ma Vito Ciancimino era legato testa e piedi a Provenzano».
Uccisi, nel 1992, il 12 marzo l’europarlamentare Salvo Lima e il 17 settembre l’ex esattore Ignazio Salvo, gli altri politici nel mirino di Cosa nostra si salvarono perché Provenzano cambiò strategia.

«Ma anche perché – continua Giuffré – nel ‘93 si apre un nuovo corso tra Cosa nostra e la politica. Nell’87 era stato dato l’ordine di non votare più Democrazia Cristiana, ma Partito socialista e radicali. Provenzano, avviando il nuovo capitolo, prima era un po’ freddo, ma poi parlando di Marcello Dell’Utri (pure imputato al processo, ndr) e di Forza Italia mi disse: “Siamo in buone mani”. Così tutti ci adoperammo per dare una mano a questa nuova formazione politica che stava nascendo».

Giorgio Petta lasicilia

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