“Ricostruzioni manipolate”, “amnesie istituzionali”, testimoni mentitori di professione.
E la verità sulla strage di via D’Amelio resta nascosta tra ombre e sospetti. A tracciare gli scenari che si celano dietro all’attentato costato la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta è il tribunale di Caltanissetta che ha scritto l’ultimo capitolo della travagliata storia processuale della strage nelle motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sull’eccidio.
Al termine del dibattimento il collegio dichiarò prescritte le accuse contestate a Mario Bo e Fabrizio Mattei, due dei tre poliziotti imputati dell’inquinamento dell’inchiesta, e assolse il terzo imputato, Michele Ribaudo. Rispondevano di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia. Con la regia del loro capo, Arnaldo La Barbera, poi morto, avrebbero creato a tavolino falsi pentiti imbeccandoli e costringendoli ad accusare persone poi rivelatesi innocenti.
Ma il tribunale, nelle motivazioni della sentenza, non si limita a valutare il ruolo dei poliziotti nella manipolazione della verità e si spinge a svelare “la partecipazione all’attentato di soggetti diversi da Cosa nostra interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino”. E affronta lo scottante capitolo dell’agenda rossa, il diario del giudice che sarebbe stato fatto sparire dalla sua borsa dopo l’esplosione. Fu rubata, sì, scrivono i magistrati “ma non da uomini della mafia”.
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